Ieri sera ho visto l’atteso Quella casa nel bosco, esordio al cinema di Drew Goddard. Dico subito che a me il film è piaciuto e ha assolto fondamentalmente al suo ruolo di intrattenimento, mostrando ogni sorta di immaginifica creatura del terrore, dagli zombie ai licantropi, dal clown di IT alle streghe e tanto altro.
La trama inizia come tanti altri film horror per poi virare sul finale in modo inatteso. Cinque studenti di college partono su un camper alla volta di una casa nel bosco per trascorrere un week-end di assoluto relax. Dopo aver fatto rifornimento in una pompa di benzina gestita da un uomo inquietante giungono a destinazione. Ormai a loro agio nella baita, iniziano a giocare a obbligo e verità quando una botola si apre svelando una cantina colma di strani oggetti: di lì a poco saranno presi d’assalto da una famiglia di zombi, mentre da una sala-bunker un gruppo di tecnici osserva attraverso telecamere nascoste ogni loro mossa in un rutilante tentativo di sacrificio umano volto a non risvegliare gli “antichi”, esseri primordiali che distruggerebbero la terra se non placati con il sangue.
Saggio analitico su tendenze, ossessioni e pratiche dell’horror, l’esordio al cinema di Drew Goddard comincia come il più piatto teen horror per mutarsi, di sequenza in sequenza, in un lavoro totalmente refrattario alla stabilità. Come in un’antologia che è anche sintesi storica del genere, dal più routinario degli inizi si attraversano interi universi di celluloide orrorifica – davvero infinite le citazioni – mediante una strategia ondivaga che fa dell’imprevedibilità la pietra angolare dell’operazione. È un ritmo sussultorio quello del film, renitente a qualsiasi tipo di certezza, un insieme di quadri-mondi rivoluzionati, di volta in volta, dalla voglia di stupire e di andare a fondo su argomenti trattati con distacco critico e affilata ironia. Pervaso da una smania di originalità sempre sul baratro dell’eccesso, Quella casa nel bosco ha abbastanza personalità per porsi come una nuova ipotesi di horror, capace di portare alle estreme conseguenze il gioco meta-cinematografico e lo studio dei meccanismi della paura.
Siano essi interni, si pensi alle regole auree già messe nero su bianco dal Wes Craven della saga di Scream, che esterni: quale potere esercita il cinema del terrore sullo spettatore? A tratti delirante, la sceneggiatura di Goddard e Joss Whedon è centrata soprattutto su interrogativi che investono le strutture del narrare, il sistema dei personaggi, la loro adesione a modelli di racconto prestabiliti; dalla messa in scena di cinici personaggi vicari della figura del burattinaio – i tecnici che osservano a distanza e intervengono sulla “trama” – emerge un giudizio sul ruolo del regista che se non fosse stemperato dal sarcasmo apparirebbe squisitamente morale. Già il curriculum di Goddard e Whedon – sceneggiatore di Cloverfield, Lost e Alias il primo, creatore di Buffy l’ammazzavampiri e Angel il secondo – assicurava un prodotto al di sopra della media, sebbene il risultato faccia pensare a qualcosa che va al di là della secca somma dei contributi di ognuno. Questo intelligente e teorico viaggio nell’immaginario del genere è tanto smaliziato da suggerire il dubbio che la vertigine consista nel tentare qualsivoglia interpretazione: come se la pellicola stessa togliesse d’impaccio il recensore essendo già analisi, teoria e ripensamento del cinema dell’orrore così come lo conosciamo.