In grande ritardo, lo ammetto, rispetto all’uscita nei cinema, ho visto il capitolo finale della lunghissima saga di Harry Potter, avventura cominciata quasi in sordina dieci anni fa (Harry Potter e la pietra filosofale, 2001), Harry Potter e i doni della morte – Parte II.
Lo scontro tra Harry e lord Voldemort è in sintesi la lotta tra Bene e Male, alla quale il giovane mago (non più maghetto) arriva dopo aver superato una serie indicibile di ostacoli e pericoli. Lotta tra il bene e il male che concerne anche le mie saghe preferite, quella di Guerre Stellari contro l’oscuro imperatore e Il signore degli anelli contro l’ancora più oscuro Sauron.
Questo di Harry (e di Ron e Hermione, spesso in disparte, però) è un viaggio, di crescita, di formazione, di conoscenza che i tre affrontano muovendosi tra il senso del dovere e la follia dell’ignoto.
La dimensione onirica spiazza la logica narrativa. C’è una Vita che deve vincere la Morte, e tutto è lecito, per i maghi. Così nel finale i personaggi tornano alla Scuola di Hogwarts, luogo familiare, ed è come tornare a casa, all’infanzia, all’inizio. La circolarità del tono affabulatorio definisce un sistema filosofico spirituale inevitabilmente dai forti sapori anglosassoni: come i protagonisti di una fiaba inquieta condannati a vagare in una foresta del nord Europa.
Nell’andare avanti, il periodare si fa ostico, aspro, qua e là enigmatico, accompagnato da crudezze, certo non facile da seguire per i più piccoli. Restano il fascino visivo e visionario di una costruzione filmica simile ad una possente architettura, un finale forse persino provocatorio, l’idea che la conclusione (se c’è) appartiene al film, alla favola, ai personaggi ma certo non a quello che ci hanno raccontato per un decennio.
Dal punto di vista pastorale, il film è da valutare come consigliabile.
Insieme a Voldemort la saga di Harry Potter esala l’ultimo respiro e lascia orfani una messe inestimabile di spettatori che per dieci anni hanno visto crescere, amare, lottare e invecchiare il maghetto di Privet Drive. Iniziato all’età adulta nel tempo di sette libri e otto film, il sempre uguale Harry Potter è stato affidato a Daniel Radcliffe, che tra azioni magiche e prodigi naturali, ha trovato il tempo di essere attore nei teatri e nel mondo normale dei babbani.
Con sacrificio, fedeltà e intraprendenza lo hanno accompagnato Rupert Grint (Ron) e Emma Watson (Hermione), braccati, marchiati e torturati ma sempre pronti a sbrigarsela come potevano dentro camere segrete, foreste proibite, banche o paioli magici.
A dare vita a questo grande spettacolo infatti ci hanno pensato tuttavia gli attori, che la scrittrice ha preteso inglesi. Sono loro i produttori di incantesimi che hanno riempito le sale e incantato le masse babbane. Su tutti Alan Rickman (Severus Piton), signore di tempeste emotive concentrate in una lacrima che rivela commossa il rovescio del male.