Una vita segnata dal peccato ma senza possibilità di redenzione, quella che Cormac McCarthy ci racconta nella sua prima sceneggiatura per il cinema. Contrariamente al film diretto da Martin Scorsese, The wolf of wall street, dove alla fine della sua discesa agli inferi il suo protagonista trova una possibilità di redenzione in una nuova vita. L’avvocato protagonista di The counselor, Michael Fassbdender, invischiato per avidità in efferate violenze, non troverà nessuna pietà da parte dei suoi carnefci, un cartello sanguinario che gioca con i cadaveri con il massimo disinteresse per la vita e che, come spiega Brad Pitt: “Non è che non credano nelle coincidenze, sanno che esistono, solo non ne hanno mai vista una”.
Questo film è molto dello scrittore di The road e Non è un paese per vecchi, nei personaggi, nell’assenza di senso e tantomeno di giustizia in un mondo in cui l’unica cosa tangibile e seria pare essere l’efferatezza della morte e non ci sarà bisogno di guardare il contenuto del DVD che viene recapitato all’avvocato, l’atmosfera disseminata in tutto il film tra interni moderni, hotel di lusso, bestie feroci lanciate nel deserto e racconti terrificanti ha già lavorato a sufficienza e ciò che si intuisce è peggio di qualsiasi visione. In questo senso, in una galleria di personaggi esagerati e non sempre riusciti che girano intorno all’unico normale (considerato poco più di un’idiota), Cameron Diaz (bravissima) viene caricata con l’incombenza maggiore, quella di dar credibilità al carattere più paradossale di tutti. Nel complesso è chiaro che ci troviamo di fronte ad un Cormac McCarthy che ha sicuramente più efficacia sulla carta stampata e con un Ridley Scott che svolge il suo compitino ma senza nessun guizzo, e siamo già al terzo film condotto così dopo Robin Hood e Prometheus.