Sono reduce dalla visione di Ender’s Game la versione cinematografica del capolavoro di Orson Scott Card che amo molto e che nella mia personale classifica delle saghe di fantascienza si compete la prima posizione con Dune.
Sebbene in modi diversi, tanto il romanzo che il film scritto e diretto da Gavin Hood riescono infatti nell’intento di mettere lo spettatore nella condizione di doversi riambientare ad ogni capitolo. Sul fronte filmico, sfruttando le promozioni di Ender in nuove squadre e nuovi ambienti e il suo incontro con nuovi aiutanti e nuovi rivali, Hood rende avventuroso e imprevedibile un percorso che sappiamo lineare fin dall’inizio, fin dal nome del protagonista, che porta in sé la natura di ultimo predestinato. Il gioco, invece, è piacevolmente sostanziale sia alle dinamiche filmiche che a quelle teoriche, ispirate alla teoria matematica dei giochi e cioè all’analisi delle decisioni individuali nelle situazioni di interazione.
Si avverte, sfortunatamente molto, il lavoro di condensazione (a volte gli avvenimenti si susseguono troppo velocemente), e la necessità di sintesi impone di far riferimento al già noto (le immancabili marcette à la Full Metal Jacket, il ricordo mai sopito di War Games), ma, a questa sensazione di sbrigativo si oppone, a compensare, l’intensità dell’intepretazione di Asa Butterfield, incarnazione perfetta del binomio antinomico di innocente colpevole. Buona l’interpretazione di Harrison Ford (che è sempre stato uno dei miei attori preferiti ma devo ammettere che è invecchiato oltremisura precocemente) e Ben Kingsley il cui apporto è marginale.