Ho recuperato leggermente in ritardo quello che definirei il film dell’anno, l’ultima fatica di quel geniaccio di Alex Garland, Civil War.
Un film crudo, violenti, allucinante e provocatorio, un film che non fa sconti a nessuno e dove non esistono i “buoni”. I protagonisti, un gruppo di giornalisti completamente anestetizzati rispetto dalle emozioni viaggiano attraverso un’America pericolosa, popolata da individui completamente allucinati dove si alternano cittadine tranquille sotto il controllo di cecchini posizionati sui tetti delle case e altre in pieno scacco di folli assetati di sangue. Il finale è un’autentico pugno allo stomaco.
In una New York a corto di acqua e dove la guerra è arrivata in forma di terrorismo, con attentati kamikaze, il giornalista Joel e la fotografa Lee hanno deciso che è rimasta una sola storia da raccontare: intervistare il Presidente degli Stati Uniti, da tempo trinceratosi a Washington mentre dilaga una feroce Guerra Civile. Partono così per un viaggio verso la capitale, cui si aggregano l’anziano e claudicante giornalista Sammy e la giovane fotografa Jessie, che vede in Lee un modello da seguire. Contro quel che resta del governo si muovono le truppe congiunte Occidentali di Texas e California, ma la regione che i giornalisti attraverseranno nel loro viaggio non è fatta di battaglie campali tra schieramenti ed è invece preda di un caos di microconflitti e atrocità.