Lion era l’ultimo film candidato agli Oscar 2017 che mi mancava. E Lion è a tutti gli effetti un film costruito per essere candidato agli Oscar. Un biopic, gennere che da parecchi anni è un chiodo fisso dell’Accademy, con lieto fine e risvolti emotivi, lacrime che scorrono senza fine nei primi 30 minuti nei quali vediamo il piccolo Sunny Pawar (Saroo da bambino) muoversi smarrito per le vie di Calcutta. Devo dire che questa è senz’altro la parte più incisiva, ma d’altronde chi è che non si commuove vedendo un bambino cercare disperatamente la mamma? Nella seconda parte, quella con Dev Patel, scivola nel melò più scontato per accumulazione di contenuti e si conclude senza emozione alcuna. Anche qui non capisco il motivo di una candidatura per un film di questo genere, soprattutto se penso all’esclusione di film come Animali Notturni. Queste sono le contraddizioni degli Oscar.
Nel 1986 il piccolo Saroo di cinque anni, decide, una notte, di seguire il fratello più grande non lontano da casa, nel distretto indiano di Khandwa, per trasportare delle balle di fieno. Non resiste, però, al sonno e si risveglia solo e spaventato. Sale in cerca del fratello su un treno fermo, che parte, però, prima che lui riesca a scendere e percorre così 1600 chilometri, ritrovandosi a Calcutta, senza nessuna conoscenza de bengalese e nessun modo per poter spiegare da dove viene. Dopo una serie di peripezie, finisce in un orfanotrofio e viene adottato da una coppia australiana. Venticinque anni dopo, con l’aiuto di Google Earth e dei suoi ricordi d’infanzia, si mette alla ricerca della sua famiglia.