Non è nato in un garage di Fabio Carletti
Un affascinante racconto sull’origine del personal computer. L’innovazione tecnologica avanza lungo un fronte ampio, non lineare; le grandi invenzioni non vengono mai create dal nulla ma sono frutto di molteplici idee che si fondono al momento giusto. Ma i computer non possono essere considerati soltanto come un prodotto di ingegneri che lavorano in un campo esclusivamente tecnico; sono invece il risultato di complesse dinamiche economiche, politiche e sociali, oltre che tecniche, che vanno inquadrate in un contesto storico. Quasi tutte le storie sull’origine del personal computer prendono atto nella Bay Area e si focalizzano sulla spinta dal basso degli hobbisti. Generalmente, vengono fatti passare in secondo piano i progressi fatti nell’elettronica dello stato solido e i precedenti tentativi di affermare l’idea di informatica personale. Questo libro si concentra sulla fase di passaggio dalle architetture centralizzate ai dispositivi dedicati al singolo utente, descrivendo le varie spinte dall’alto durante un periodo storico più ampio. È la parte, di solito appena accennata o liquidata come “background”, a cui ho voluto dedicare maggiore attenzione, rovesciando la prospettiva. Nei vari capitoli, il concetto di personal computer è legato strettamente al suo utilizzo interattivo, piuttosto che all’idea di un prodotto commerciale. La maggior parte degli eventi trattati prende atto a cavallo degli anni ‘70, diverso tempo prima che i garage della Silicon Valley salissero alla ribalta della cronaca. Aziende come Xerox, DEC, HP, Olivetti, Wang, Viatron e CTC portarono avanti parallelamente una propria interpretazione di informatica personale. L’approccio poteva essere radicale, oppure più conservativo e pragmatico, in base alle finalità. Infatti, sebbene il personal computer faccia da fi lo conduttore, non bisogna mettere sullo stesso piano e confrontare direttamente prototipi realizzati in laboratori di ricerca con macchine destinate a competere sul mercato. Alcune idee, tecnicamente fattibili, non potevano tradursi in prodotti con un livello di prezzo adeguato per l’utenza a cui erano rivolti. In quest’ottica viene anche riconsiderato il ruolo del microprocessore, importantissimo ma non fondamentale alla definizione di personal computer. Non fu una vera e propria invenzione, nel senso strettamente tecnologico del termine; sotto certi aspetti, faceva parte di un normale percorso evolutivo nell’industria dei semiconduttori. L’adozione del microprocessore da parte dei produttori di personal computer, più che un risparmio sui costi, segnò una discontinuità netta con le precedenti architetture derivate dai minicomputer. Il vantaggio principale di cui beneficiarono gli hobbisti fu la possibilità di lavorare a dei progetti che, grazie a quel nuovo componente, apparivano notevolmente semplificati. Come rovescio della medaglia, i primi personal computer seguirono un percorso evolutivo disordinato che non favorì la creazione di uno standard. Cosa più importante, persero una caratteristica fondamentale, quella che Douglas Engelbart e Alan Kay consideravano come parte integrante del concetto stesso di personal computer: la possibilità di comunicare in rete.