Ha davvero un’anima molto classica Ex machina e fa di tutto per mascherarla. Questo film di fantascienza psicologica, tutto basato sulla parola e sul ragionamento, è strutturato intorno ad uno scienziato che si spinge oltre quello che dovrebbe essere consentito. Il tema è stato trattato in molti film da Blade Runner di Ridley Scott, Terminator di Cameron, A.I. di Steven Spielberg, fino a Her di Spike Jonze e al semisconosciuto ma bellissimo Eva di Kike Maillo.
Uno dei più grandi scienziati del mondo convoca un suo sottoposto in un luogo ai confini del mondo (bellissima la location della casa, realmente esistente, si tratta del Juvet hotel in Norvegia) per avere un parere esterno sull’IA che ha creato.
Fin qui tutto normale, la parte interessante sta nel fatto che il grande scienziato è in realtà tale perchè ha creato un motore di ricerca rivoluzionario e da quello ha costruito un impero economico di tecnologia che ora è ovunque (computer, telefoni cellulari…). Insomma è Google e la sua IA quello cui si basa: è intelligente perchè apprende da internet, attinge alle informazioni della rete e scopre quel che le serve sapere grazie all’accesso instantaneo a internet. L’intelligenza artificiale di Ex Machina è quindi un’intelligenza collettiva messa in una sola persona. Tutto abbastanza terrificante.
Nello scontro di intelligenze a tre del film Nathan, Caleb e Ava combattono tramite la parola (almeno fino a poco dal finale) una guerra di strategia e menzogne in cui, come spesso capita nella fantascienza contemporanea, sembra che solo il video registrato possa rivelare la verità. La realtà guardata con gli occhi è la cosa più ingannevole in assoluto, terreno di mistificazioni, mentre il video è la realtà, lo strumento di conoscenza del mondo per come è realmente, l’arma che svela gli inganni. È quindi tutto ciò che è tecnologico a meritare fiducia mentre l’analogico si dimostra costantemente insufficiente a reggere la pressione del confronto con l’inumano, non fanno eccezione gli uomini.
In questa gothic story ottocentesca modernizzata di uno scienziato impazzito che cerca di giocare a far Dio e delle creature frutto dei suoi esperimenti, il ritmo è rallentato e il passo calmo per cercare una dimensione confortevole per lo spettatore, una in cui possa ridere dei balletti disco di Nathan e intuire la presenza di segreti inconfessabili. Come per il mito di Frankenstein anche qui il punto di tutto sarà chiedersi chi dei personaggi in ballo sia davvero il mostro e chi meriti l’appellativo di essere umano (la risposta purtroppo è abbastanza scontata).
Alex Garland (già sceneggiatore di Sunshine, 28 giorni dopo e The beach per Danny Boyle) torna sui temi di Non lasciarmi (che aveva adattato) immaginando un setting tecnologico più che contemporaneo, spargendo qualche riferimento adeguato alla maniera in cui i padroni dei motori di ricerca hanno, oggi, il mondo e le informazioni di tutti nelle loro mani, per descrivere un’intelligenza artificiale basata proprio su questo, sull’accesso ad ogni informazione tramite il motore di ricerca e i dati sugli esseri umani del pianeta. Infine lentamente si pone dalla parte dell’inumano piuttosto che dell’umano per raccontare nuovamente dell’insopprimibile desiderio di vivere.