Il disco dell’anno, l’ho letteralmente consumato, un poeta e un pianista con una voce da brividi questo Benjamin Clementine, l’Inghilterra prima e la Francia poi. La nascita a nord di Londra e poi Parigi, la “Notturna” Parigi che ascoltiamo nelle note dolci di pianoforte, come un risveglio di Erik Satie (London) oppure in quelli schizofrenici del Clementine-Piaf (Adios) e ancora nei sentimenti di vendetta, servita caminando s’un tappeto di archi e sbuffi, prima di aprire l’appagante trionfo cantato (Nemesis).
Hegarty in controluce (People And I), la poesia di Cohen e dei romantici inglesi nella filigrana delle canzoni del talento di colore, con l’accento idealista di Chopin (Quiver A Little), un’eccellenza che nasce dalla regola, l’esercizio, l’ossessione che diventa intuito, estro creativo (Condolence).
Clementine è il romanticismo impulsivo del XXI secolo, la frenesia dei nervi tesi sulle corde del pianoforte; carico di espressionismo compositivo ed emotivo, il musicista classe 1988 offre l’onestà dell’autodidatta (Then I Heard A Bachelor’s Cry) unita alla ricerca ossessiva della coerenza, nella musica e nelle parole (Winston Churchill’s Boy). La poesia, l’importanza delle parole, doni preziosi nell’epoca dell’ultra-velocità: occorre rallentare allora e ascoltare, leggere, pensare, con la fatica che ne consegue, testi introspettivi ispirati a William Blake, Carol Ann Duffy e C. S. Lewis, l’integrità e l’introspezione, favoloso.