Appena tornato dal cinema cerco di mettere in ordine le prime impressioni che questa ultima opera di Clint Eastwood mi ha comunicato. Perché si, è film che mi ha decisamente emozionato e colpito, forse più di tanti altri film sulla guerra che ho visto. Si direbbe una classica storia alla Eastwood (io adoro Eastwood e tutta la sua filmografia da Bird, Million Dollar Baby, Gli spietati, Changeling, Gran Torino, Invictus, Hereafter, Lettere da Iwo Jima, Mystic River) anche se a dirigerla doveva essere Spielberg, ma dopo averlo visto è chiaro che solo lui poteva dirigerlo.
La mia prima considerazione va al protagonista nonché produttore del film, Bradley Cooper, che qui dimostra per l’ennesima volta di essere un attore di prima scelta (al cinema due ragazzotti dietro di me si chiedono chi sia l’attore protagonista, volevo girarmi e dirgli che ha già preso un oscar con Il lato positivo, ma dove cazzo vivono questi? Mai visto Una notte da leoni? Limitless? Come un tuono?). Oltretutto mi ha colpito la grande fisicità di Bradley Cooper che deve avere lavorato parecchio fuori e dentro per entrare nel personaggio.
Il Navy Seal Chris Kyle non è un esaltato ma un uomo che sa bene, come racconta al figlio, che fermare un cuore che batte è una cosa grossa.
Il film ci porta con lui sui tetti della battaglia per denunciare l’assurdità della guerra con le sue assurde regole e i suoi deliranti perimetri di orrore. Ma Eastwood fa qualcosa di più che denunciare, si prende il rischio di raccontare quell’incoerenza attraverso un personaggio che in quella guerra credeva davvero, che nel suo mestiere, quello delle armi, confidava, Dio Famiglia Patria. Armato di fucile e bibbia, il Seal di Bradley Cooper inchioda i cattivi al destino che meritano, guardando le spalle ai marines che casa per casa cercano il male, genuina ingenuità di un soldato che sognava un mondo perfetto. Sobrio, lucido, senza contratture, American Sniper, basato sull’autobiografia di Chris Kyle, descrive un Paese che seguita a duellare con la morte in nome della ‘vita’. Rispetto ad altri film post 11 settembre come Blackhawk Down, Hurtlocker, Zero Dark Thirty, Act of Valor, Jarhead, Three Kings, Green Zone, In the Valley of Elah, American Snaper ha il pregio di rendere umano il protagonista, non una macchina da guerra cieca e insensibile, ogni uccisione per Chris Kyle è una lacerazione dell’anima.
A Clint non piacciono le chiacchiere ed è pronto a rinunciarci pur di far capire le cose visivamente, penetrando il nucleo stesso del reale con l’aiuto della sensibilità. Contro l’effimero senza malinconia, Clint Eastwood mette in scena la parabola di un reduce, che come tutti i reduci, non è ancora morto ma sta morendo, ucciso dal fuoco amico, ucciso dal proprio Paese. Fantasma che non vive ma sopravvive.
Chris Kyle, texano che cavalca tori e non manca un bersaglio, ha deciso di mettere il suo dono al servizio degli Stati Uniti, fiaccati dagli attentati alle sedi diplomatiche in Kenia e in Tanzania. Arruolatosi nel 1999 nelle forze speciali dei Navy Seal, Kyle ha stoffa e determinazione per riuscire e ottenere l’abilitazione. Perché come gli diceva suo padre da bambino lui è nato ‘pastore di gregge’, votato alla tutela dei più deboli contro i lupi famelici. Operativo dal 2003, parte per l’Iraq e diventa in sei anni, 1000 giorni e quattro turni una leggenda a colpi di fucile. Un colpo, un uomo. Centosessanta uomini abbattuti (e certificati) dopo, Chris Kyle torna a casa, dalla moglie, dai bambini e dai reduci, a cui adesso guarda le spalle dai fantasmi della guerra del Golfo. Una dedizione che gli sarà fatale.