Sei anni dopo Once, gran fil di ambientazione musicale ambientato a Dublino, John Carney attraversa l’oceano e compone un nuovo refrain, una creazione musicale e un processo di creazione musicale che canta l’amore ed esalta il potere trasformativo dell’arte. Romantico e spassoso, Tutto può cambiare non è assimilabile comunque alla commedia sentimentale, che lambisce senza mai consumare veramente. Il nuovo film di Carney è piuttosto una ballata, un componimento pop(olare) costruito intorno a distinti attimi di felicità e affidato alla citazione viva: promenade e evasioni urbane guidate dalla musica.
La linea dei grattacieli di New York (ri)trova una celebrazione e fornisce un incipit a una storia che ripaga i protagonisti dei molti affanni ma non prelude a una relazione sentimentale. Perché, alla maniera di Once, Tutto può cambiare non esplicita il sentimento, lasciando che la dialettica amorosa scorra dentro le canzoni eseguite nei vicoli, nei parchi, sulle strade e nella dismisura scenografica di New York. Città isola e unico luogo pensabile in cui realizzare il proprio sogno e magari aiutare un amico a realizzare il suo.
Tutto può cambiare si muove intorno al doppio jack di Mark, cavo e oggetto del cuore allacciato allo specchio interno della sua Jaguar vintage, che collega due cuffie a un medesimo lettore e compendia la poetica di John Carney. Un’idea di cinema che accorda le persone attraverso la musica. Pericolosamente in bilico dentro una metropoli sfruttata dal turismo sentimentale, il regista irlandese, ex batterista dei The Frames (band indie irlandese), si mantiene al di qua del limite, dissimulando i cliché, trasformando New York in uno studio di registrazione en plein air e realizzando una demo che ci viene personalmente recapitata. Come Dan spiega a Gretta, è la musica a rendere ogni passaggio della vita irrinunciabile, a cambiarla di segno proprio come fa con la commedia di Carney, definendo l’armonia della sua tessitura e sollevandola da un esito altrimenti convenzionale.
Davanti a Keira Knightley, mono-tona al microfono e disarmonica nei piani, si impone Mark Ruffalo, sfrontato, incolto e obliquo sopra il divano o dietro a un basso, che graffia usurpando il trono di Adam Levine, leader dei Maroon 5 parcheggiato letteralmente in panchina. È indiscutibilmente Mark a conquistare la scena e a riempirla col suo humor caldo e la perfetta padronanza dei tempi, che dispiegano un talento limpido e la limpida epifania di un attore troppo a lungo trascurato.