da G. K. Chesterton – Blog dell’uomo vivo
I soldati inglesi cantavano nelle trincee della I Guerra Mondiale proprio questo poema
Tempo: 7 ottobre 1911. Luogo: Beaconsfield. Gilbert Keith Chesterton sta scrivendo gli ultimi versi di “Lepanto” pressato dalle sollecitazioni del postino il quale attende, alla porta della sua villetta, che gli sia finalmente consegnato il plico contenente il poemetto da portare al treno in partenza per la capitale. L’opera sarà pubblicata cinque giorni dopo sul giornale “The Eye-Witness” di Hilaire Belloc.
E la ricerca estetica e formale? E il lavoro di lima? Cosa possono mai pensare di un’opera di questo genere i sussiegosi teorici della letteratura del ‘900? Molto male, o meglio… nulla. E nell’oblio, infatti, è stata relegata questa come altre opere di questo gigante del pensiero europeo. Secondo Belloc, Lepanto “è il risultato più alto nella poesia non solo di Chesterton ma di tutta la nostra generazione”. Come è possibile che questo capolavoro e anche, in parte, il suo autore siano stati dimenticati?
Uomo coltissimo ma “anti-intellettuale” per eccellenza, che la critica politicamente e “intellettualmente” corretta del ‘900 non poteva che ostracizzare, Chesterton scriveva per tutto il popolo e non per le consorterie, scriveva non perché ambisse alla fama ma esclusivamente spinto da un’esigenza morale. E così, mentre nei salotti londinesi cominciavano a circolare i versi di T.S. Eliot (pregevolissimi, e anche, di lì a poco, sentitamente cristiani ma, irrimediabilmente ermetici) quelli solari di G.K. Chesterton erano cantati in coro dai fanti britannici nelle fangose trincee della I Guerra Mondiale.
Nell’entusiasmante avventura letteraria di questo originalissimo moralista/umorista il vero e il giusto si coniugano naturalmente con il bello grazie a un inimitabile genio. Così è nel caso di “Lepanto” il poemetto che, mentre attraverso la potenza del ritmo e delle immagini ci fa rivivere con orgoglio una fondamentale pagina della storia d’Europa, sa esprimere profonde verità filosofiche e politiche sulla nostra fede cristiana e sulla nostra identità di europei e di occidentali.
Tornando, dunque, alla fortuna di Lepanto va detto che se la prima emarginazione di questa meravigliosa “ballad” fu intellettuale, dovuta cioè al fatto che la poesia rispettosa di metro e di rima e, soprattutto, la poesia “comunicativa”, che esprimeva, cioè, senza mascherature i propri contenuti, apparivano superate, la seconda emarginazione, ben più ferrea, fu politico/culturale. Oltre che l’anti-intellettuale, Gilbert K. Chesterton è, infatti, anche e soprattutto l’anti-relativista per eccellenza! A partire dal secondo dopoguerra, un autore che rivendicasse a testa alta la libertà come precipua conquista della civiltà europea e cristiana (ed europea in quanto cristiana!) nel confronto e nel conflitto contro le civiltà “orientali” del fatalismo e della sottomissione era quanto di più politicamente scorretto si potesse concepire.
E’ dunque un’aria d’anteguerra che si respira nei versi di Lepanto, ma di certo non stantia, al contrario un’aria fresca e pulita come quella che, sul ponte della sua nave respirava Don Giovanni d’Austria mentre, sorridendo, lanciava coraggiosamente la flotta cristiana in una battaglia che avrebbe salvato l’Europa. E di un po’ di quell’aria avrebbe bisogno anche l’Europa di oggi.
LEPANTO di G. K. Chesterton (1911) – Traduzione in versi italiani di Rodolfo Caroselli (2009)
Nelle corti del sole bianche fontane scrosciano,
il Sultan di Bisanzio (1) sorride mentre scorrono;
come quell’acque un riso, sul volto più temuto,
muove la nera selva, il nero della barba,
la mezzaluna inarca sanguigna delle labbra,
ché le sue navi battono il mare interno al mondo (2):
sfidate le repubbliche fin sulle coste italiche,
squassano l’Adriatico torno al Leon dei mari (3),
e il Papa (4) nell’angoscia ha proteso le mani
e invoca ai re cristiani le spade per la Croce,
ma la sovrana inglese (5) guarda il suo specchio, fredda,
sbadiglia mentre è a Messa l’ombra dei Valois (6);
le gemme delle Indie l’armi di Spagna fiaccano:
e il Re del Corno d’Oro (7) nel sole sta ridendo.
I tamburi attutiti echeggiano sui colli
che sono un regno ignoto per un negato principe (8),
ove, da un dubbio ufficio e da un incerto rango,
ultimo cavaliere d’Europa prende l’armi,
poeta estremo e tardo per cui cantò l’uccello,
che a sud andò cantando quando il mondo era giovane;
in quel silenzio enorme, sale sottile e intrepido,
su per sinuosa via, un suono di Crociata.
I gong ed i cannoni tremare fan la terra,
è Don Giovanni d’Austria che parte per la guerra,
Si tendon le bandiere al vento della notte,
nell’ombra son viola, oro vecchio alla luce,
le torce sono cremisi sui timpani di rame,
ecco poi trombe, squilli, quindi il cannone e lui.
E Don Giovanni ride con la sua barba riccia,
giacché ogni regno al mondo non vale i suoi stivali,
e il capo tiene alto, segno di libertà.
La luce della Spagna!
Dell’Africa l’incendio (9)!
E’ Don Giovanni d’Austria
che prende il largo, hurrà!
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Note:
1 Selim II, sultano di Costantinopoli (oggi Istanbul), capitale dell’Impero Ottomano.
2 Il Mediterraneo. Poco prima della battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571), che si trova nel Golfo di Patrasso (Grecia), i Turchi avevano completato la conquista di Cipro (strappandola ai Veneziani).
3 La Repubblica di Venezia.
4 Pio V. Solo il 7 marzo del 1571, per contrastare l’espansione turca, era riuscito a riunire la Lega Santa, formata, oltre che dallo Stato Pontificio, dal Regno di Spagna e dalle Repubbliche di Venezia e Genova.
5 Elisabetta I d’Inghilterra.
6 Il giovane re di Francia Carlo IX, che era sotto la tutela della madre, la reggente Caterina dei Medici.
7 Insenatura su cui si affaccia Costantinopoli.
8 Il principe Don Giovanni d’Austria, imposto dal Papa come comandante della flotta cristiana, era figlio illegittimo di Carlo V e fratellastro del re di Spagna Filippo II.
9 I paesi dell’Africa mediterranea stanno qui a rappresentare tutto l’Impero Ottomano (di cui facevano parte).