Diario di un dolore, C.S. Lewis, Adelphi
Diario di un dolore è un piccolo libro, piccolo ma denso di emozioni e di conforto per chi come l’autore ha appena perso una persona molto amata, io in questi giorni lo sto rileggendo e devo dire che le stesse domande che si poneva Lewis hanno assillato anche me quando il puro dolore mi assale.
Il dolore puro è difficile da raccontare. Ma qui qualcuno ci è riuscito, con una precisione e un’onestà che ci lasciano ammirati, arricchiti. Questo è un libro che riguarda da vicino chiunque abbia avuto nella sua vita un dolore. C.S. Lewis pubblicò nel 1961, sotto lo pseudonimo di N.W. Clerk, questo breve libro che racconta la sua reazione alla morte della moglie. Illustre medioevalista e amatissimo romanziere, amico di Tolkien e come lui dedito alle incursioni nel fantastico, C.S. Lewis si è sempre dichiarato innanzitutto uno scrittore cristiano. Ma un cristiano duro, nemico di ogni facile consolazione. E ciò apparirà immediatamente in questo libro perfetto, dove l’urto della morte è subìto in tutta la sua violenza, fino a scuotere ogni fede. Non c’è traccia di compiacimento o di compatimento per se stessi. C’è invece un’osservazione lucida, che registra le sensazioni, i movimenti dell’animo che appartengono al segreto di ciascuno di noi – e che spesso non vogliamo riconoscere.
Ogni infelicità è in parte per così dire l’ombra o il riflesso di se stessa: non è soltanto il proprio soffrire, ma è anche il dover pensare continuamente al proprio soffrire.
La debolezza dell’altro, la sua paura, la sua sofferenza non puoi farle tue.
La morte esiste. E tutto ciò che esiste ha importanza. E tutto ciò che accade ha conseguenze ed è, come queste, irrevocabile e irreversibile. Tanto varrebbe dire che la nascita non ha importanza.
Solo un rischio vero mette alla prova la realtà di una convinzione. A quanto pare, la fede (ciò che io credevo fosse fede) che mi permette di pregare per gli altri morti mi è sembrata forte solo perché non mi è mai importato granché, non mi è ma importato disperatamente che quei morti esistessero i no.
Parlatemi della verità della religione e ascolterò con gioia. Parlatemi del dovere della religione e ascolterò con umiltà. Ma non venite a parlarmi delle consolazioni della religione o sospetterò che non capite.
Non abbiamo alcun motivo per obbedirgli. Nemmeno la paura. E’ vero che abbiamo le sue minacce e le sue promesse ma perché dovremmo credergli?
A che scopo cominciare qualcosa? Adesso non c’è altro che tempo. Tempo quasi allo stato puro, vuota consequenzialità.
Il dolore si acquieta dunque in una noia soffusa di una vaga nausea?
Le torture ci sono. Se non sono necessarie allora o Dio non esiste o è malvagio. Se c’è un Dio buono, allora queste torture sono necessarie. Perché, se non lo fossero, nessun Essere anche solo moderatamente buono potrebbe mai infliggerle o permetterle.
Le prove non sono esperimenti che Dio fa sulla mia fede o sul mio amore per saggiarne la qualità. Lui, questa, già la conosceva. Ero io che non lo conoscevo. E’ piuttosto una chiamata in giudizio, dove Dio fa di noi gli imputati e al tempo stesso i testimoni e i giudici. Lui l’ha sempre saputo che il mio tempio era un castello di carte. L’unico modo per far sì che lo capissi anch’io era di buttarlo giù.