Creando una sorta di “epica del pub” (con i suoi luoghi tipici, le sue consuetudini e caratteristiche precipue) La fine del mondo narra un viaggio a dir poco leggendario. Compiere il miglio Dorato, un percorso di 12 pub in una notte sola: The First Post, The Old Familiar, The Famous Cock, The Cross Hands, The Good Companions, The Trusty Servant, The Two Headed-Dog, The Mermaid, The Beehive, The King’s Head, The Hole in the Wall, The World’s End annunciano, coi loro nomi, il contenuto delle scene che il gruppo di amici si trova a vivere.
Gary e i suoi amici (Gary King (Simon Pegg), Andy Knightley (Nick Frost), Peter Page (Eddie Marsan), Steven Prince (Paddy Considine) e Oliver Chamberlain (Martin Freeman), tutte figure legate alla mitologia cavalleresca all’inizio della storia sembrano voler rimettere in scena il proprio passato e finiscono per trovare più di quanto cercassero, confrontandosi fisicamente con degli avversari che spiritualmente costituiscono quello che hanno messo sotto il tappeto, la loro storia personale lasciata sedimentare dai tempi del liceo. Materialmente incontrano ciò che si sono lasciati dietro, per affrontarlo solo dopo diverse pinte di birra quando l’alcol li priverà delle inibizioni maturate in una vita da persone regolari, rendendoli di nuovo liberi.
Con la trilogia del cornetto (L’alba dei morti dementi, Hot Fuzz e questo film) Edgar Wright e Simon Pegg (oltre che attore anche sceneggiatore) hanno esplorato con una forza e una pregnanza sconosciute al cinema d’intrattenimento spettacolare, la maniera in cui il quotidiano inquini l’umano ovvero il progressivo diventare “mostri” degli esseri umani quando, una volta cresciuti, sono inseriti nel sistema lavorativo-familiare. E questo svelamento avviene spesso mettendo a confronto i mostri che i protagonisti sono ad inizio film con dei “mostri” da cinema, come gli zombie di L’alba dei morti dementi.
Nelle storie di Pegg e Wright spesso si scopre che, sebbene le combattiamo, forse ci siamo diventati come quelle creature che i film ci hanno raccontato e non ce ne rendiamo conto. E anche in questo film emergeranno figure prese dalla storia del cinema di fantascienza anni ’50 che non sono lontane da ciò che i personaggi mostrano di essere all’inizio della trama.
Wright è l’unico a parlare questa lingua, l’unico che riesca a trasmettere temi e intuizioni bergmaniane ad un pubblico che chiede un cinema d’azione e intrattenimento spielberghiano, l’unico a padroneggiare il linguaggio per immagini ad un livello che gli consenta di potersi divertire con gli artifici retorici più classici del cinema, piegandoli a piacimento, mescolando riferimenti a tutto il conoscibile (forse l’unica pecca del film, eccessivamente impegnato nel far cogliere a tutti le sue citazioni).
In La fine del mondo si ammira quel raro processo narrativo per il quale la dimensione epica delle imprese personali è immaginata da chi le vive in quella cinematografica. Vivere come al cinema, immaginando se stessi come protagonisti di un film e quindi diventarlo, ovvero ingrandire i sentimenti filmando di fatto un mondo interiore attraverso gli stereotipi del cinema (quello d’azione eccessivo di Michael Bay in Hot Fuzz o l’horror classico in L’alba dei morti dementi).
Piccola curiosità, la scena finale del film è una citazione a Il Signore degli Anelli – Il ritorno del Re. Gary King che fa ritorno rappresenta Aragorn, le persone all’interno della locanda i barbari, e coloro che accompagnano Gary rappresentano prima la Compagnia dell’Anello e poi gli spettri del terzo film.