Il terzo ed ultimo capitolo della saga combina due storie classiche del fumetto Marvel di partenza, quella del Mandarino ed “Extremis”, innestandole non là dove terminava il secondo film bensì dopo “i fatti di New York”, ovvero al termine dell’esperienza collettiva di The Avengers. Il film di Joss Whedon ha segnato dunque uno spartiacque, tanto che Jon Favreau, creatore dei primi due successi, viene simpaticamente parcheggiato su un lettino d’ospedale a guardare Downtown Abbey, mentre in sala di regia prende posto Shane Black, autore, tra altro, dei buddy-movies Arma Letale e Kiss Kiss Bang Bang (il film che ha candidato Robert Downey Jr al ruolo di Iron Man).
Black dimostra di aver fatto tesoro della lezione di Whedon, dove il personaggio di Iron Man aveva dato il meglio di sé come membro di un gruppo (sodale pronto al soccorso così come alla battuta sdrammatizzante e non più egomaniaco solitario per la delizia della stampa), e si diverte ad affiancargli un compagno di turno ad ogni snodo della vicenda, con effetto comprovato. E tutto torna, perché con Iron Man 3 si scende nel privato del protagonista, in quel buco tutt’altro che vuoto che l’immagine del cratere di villa Stark rende al meglio, e più privata e personalizzata si fa anche la figura del “cattivo”, Killian, vicina a quella del freak, umiliato e assetato di vendetta, tipica di altri supereroi.
Sottraendo il personaggio di Tony Stark ai riflettori (dandolo pubblicamente per morto, ad un certo punto), Black in realtà lo illumina definitivamente, lo investe di una luce senza più ombre, perché le luci della cronaca e dello spettacolo qui cambiano drasticamente di segno e si tingono degli oscuri colori dell’invidia e della truffa.
Stark è cresciuto, protegge il privato, riconosce il teatro – che è stata una sua passione in passato – ma in esso ora legge soltanto la pietà della buffonata: non a caso sta lottando con se stesso per affrancarsi dalla maschera e ritrovare un cuore umano. E proprio la maschera, come doppio e come demone, maschera teatrale e funeraria (in mano a Pepper Potts), estesa alla misura del corpo intero, è senza dubbio il ritornello visivo più riuscito del film, cui si associa la ripresa della questione morale, vero e proprio biglietto di presentazione del personaggio nel primo capitolo, qui riproposto non più in termini di scomodo conflitto interiore quanto di certezza raggiunta. In definitiva non bello come il primo ma decisamente meglio del secondo capitolo.