All’ultima Hobbiton il mitico Valerio Massimo Manfredi ci ha affascinato narrandoci l’epopea di Gilgamesh, il leggendario dio-re Sumero (un ciclo epico di ambientazione sumerica, scritto in caratteri cuneiformi su tavolette d’argilla, che risale a 4500 anni fa tra il 2600 a.C. e il 2500 a.C.) che ha scoperto il segreto della vita eterna e ha infiammato l’immaginazione di innumerevoli generazioni. In Gilgamesh, Robert Silverberg ci offre un vivido ritratto di un coraggioso e vigoroso dominatore,a volte sconsiderato, degli uomini. E la maestosa storia di un uomo ossessionato da dei, tormentato dalla passione per una donna che era il suo più grande rivale, e guidato da una sete di immortalità.
Nella città di Uruk c’è una grande piattaforma di mattoni cotti che fu il campo da gioco degli Dei, molto tempo prima del Diluvio, in quell’epoca in cui il genere umano non era stato ancora creato e solo gli Dei abitavano la Terra. Da diecimila anni, ad intervalli di sette anni, dipingiamo di bianco i mattoni della piattaforma con un intonaco di gesso fine, cosicché la piattaforma lampeggia come uno specchio enorme sotto l’occhio del sole.