La stanza dalla porta sbarrata che cela un mistero terribile è un luogo orrorifico comune quasi quanto quello della casa maledetta che, talvolta, come in questo caso, la contiene. Ma anche le formule narrative risapute possono riservare sorprese, dipende da come vengono utilizzate. Per cercare di superare i cliché, Tonderai – che si era fatto notare con Hush, un altro horror – sceglie di curare i personaggi e la costruzione della storia.
La figura di Ryan è ben delineata e adeguatamente misteriosa: il suo passato viene tracciato attraverso i discorsi degli altri e quindi in modo forzatamente impreciso e indefinito. Il senso di responsabilità lo opprime e questo attrae Elissa perché anche lei ha la tendenza a occuparsi degli altri, per migliorarli, per salvarli da loro stessi. Un certo approfondimento psicologico c’è anche nel personaggio di Sarah, interpretato con convinzione da Elisabeth Shue, nel dettaglio del rapporto tra lei e la figlia e nel parallelo con quello che (non) c’è stato tra Ryan e i suoi genitori. Ma negli psycho-thriller – e questo appartiene senza dubbio alla categoria – le psicologie sono funzionali alle svolte narrative ed esistono allo scopo di generare sorprese più o meno artificiose e credibili. Tonderai si gioca le migliori intorno ai tre quarti del film, lasciando il restante quarto a una meccanica riproposizione di classici stilemi dell’horror, con la lotta senza quartiere tra vittima e carnefice.
Max Thieriot dà sufficiente vulnerabilità e spessore al suo personaggio e Jennifer Lawrence si adatta con dedizione al ruolo da scream queen. Pur essendo piuttosto lento e faccia fatica a prendere ritmo il film ha un certo fascino derivante anche dall’ambientazione, una provincia americana di una bellezza accecante e selvaggia.