Sono due le serie tv che stanno spopolando e raccogliendo montagne di premi e commenti entusiasti da parte della critica americana. Si tratta di Homeland, serie tv arrivata alla seconda stagione e che è riuscita nell’impresa di conquistare il pubblico anche nella seconda stagione dopo una prima strepitosa. E House of cards, serie distribuita in 13 episodi sul servizio di streaming on demand Netflix il 1º febbraio 2013, con un enorme Kevin Spacey e con i primi due episodi diretti da David Fincher (regista di Seven, Fight club, Zodiac e The Social Network).
House of cards
A detta di tutti la migliore serie tv del 2013, il racconto di una vendetta, di rancore e di prevaricazione, una rielaborazione Shakespeariana che rinuncia a qualunque elemento consolatorio. Anzi toni cupi e una regia asciutta ne fanno un vero esempio di ricostruzione documentaristica anche se siamo in piena fantapolitica. E pur essendo nella totale finzione House of cards è con Homeland lo specchio più fedele di una nazione dalle mille contraddizioni. Illuminato dal carisma di Kevin Spacey ma non solo perchè sono grandi le interpretazioni di Robin Wright e di Kate Mara ma anche di Corey Stoll, ognuno di loro rappresentante di un certo ambito legato a doppio filo con gli intrighi che sorgono nelle stanze del potere a Washington. L’immagine dell’uomo che da solo tiene in pugno una nazione con l’intelligenza e l’inganno come uniche armi, di un’epica che si fa racconto morale, di una teatralità assolutamente spettacolare. Beau Willimon, già autore della sceneggiatura di quella perla che è The Ides of March, realizza una serie potente e significativa.
Homeland
Homeland è stata la migliore serie tv del 2012, vincitore assoluto agli ultimi Emmy Awards, eppure è riuscita nell’impresa più difficile, ripetersi della seconda stagione. Il Wall Street Journal ha lodato la seconda stagione, definendo Homeland la miglior serie televisiva drammatica in televisione.
Sarebbe stato facile, dopo il successo dello scorso anno, proseguire anche in questa stagione nella scia del gioco delle parti tra Nicholas Brody (Damian Lewis), il marine ritrovato dopo otto anni di prigionia in Iraq, in realtà ormai votato alla causa terroristica, e Carrie Mathison, agente della CIA affetta da un disturbo bipolare, unica persona a non credere alla versione fornita dall’uomo.
E invece no. Con un colpo di mano talmente coraggioso e incurante del normale linguaggio televisivo, gli autori ci hanno tramortito piazzando dal primo al quinto episodio una serie di finali uno più spiazzante dell’altro.