Poetry è un vero capolavoro, se potete accettare questo mio consiglio guardatelo io l’ho trovato di una bellezza sconcertante: Quando il cadavere di una ragazza affiora dalle acque di un fiume, qualcosa nella quotidianità di Mija – badante part-time affetta da alzheimer – si incrina man mano che scoprirà di più sulle ragioni che hanno portato al suicidio della giovane.
La morte scorre sul fiume, placido ma incessante, e la tranquilla vita di provincia, fatta di routine e coazioni a ripetere, viene turbata dal macabro inaspettato, cercando disperatamente di riassorbirlo nella propria bambagia protettiva. Chi era già al di fuori – come la sensibile Mija, nonnina smemorata che tende a soffermarsi su particolari per i più insignificanti, come la quiete degli alberi o il colore dei fiori – paradossalmente possiede gli strumenti, o gli anticorpi, necessari per misurare l’orrore come merita. Dopo i travagli religiosi di un’altra protagonista femminile, squassata dal lutto, in Secret Sunshine, Lee Chang-dong si sofferma ancora sulla provincia coreana per indagare sui semi del male – provincia e male, cadaveri sul fiume, quasi fossimo di nuovo a Twin Peaks – piantati da una società indolente nel suo vuoto di ambizioni e asservita al denaro come unico scopo della propria esistenza. In Secret Sunshine la crisi personale di una donna viene affrontata attraverso il suo rapporto conflittuale con la religione cristiana, in Poetry il travaglio è passaggio imprescindibile per approfondire l’esperienza sensibile (e quindi artistica). La poesia, anche ridotta alla sua forma più elementare, è per Mija il motore della riscoperta del sentimento nei luoghi e nelle sue manifestazioni più inattese. La macchina da presa, mossa da Lee con il giusto garbo e il minimalismo di chi sceglie di osservare anziché di trascinare via con sé, si adegua al ritmo di Mija e al suo percorso lento, sofferto e soggetto agli sbalzi di una memoria ingannatrice; una via tortuosa e collaterale alla (sua) verità, che arriva dove si ferma quella dritta e immediata.
Dopo aver sconvolto la consecutio dell’intreccio per indagare nel rimosso di un popolo in Peppermint Candy, Lee Chang-dong scardina una volta ancora le regole non scritte della narrazione, alterando il ritmo di un cinema che – in Corea come in Occidente – procede spedito, a marce (spesso inutilmente) forzate.
Poetry sembra quasi un controcanto di Mother, un altro dei più importanti film coreani degli ultimi anni, anch’esso incentrato su una donna anziana in difficoltà. Pattern solo apparentemente analogo, dalle conclusioni opposte: dove Bong Joon-ho insegue archetipi che rimandano al classicismo della tragedia greca, Lee resta vicino all’uomo e al particulare, prediligendo la via della semplicità.
Sorretto dall’interpretazione strabiliante di Yu Junghee, tornata a recitare appositamente per lui, Lee Chang-dong aggiunge un altro poderoso capitolo alla sua inquietante indagine nelle pieghe meno gradevoli dell’animo umano.