La spada di Mishima, Christopher Ross, Guanda
Personaggio controverso, ultimo samurai, dandy e scrittore (il più conosciuto autore giapponese nel mondo), la tragedia di Yukio Mishima, un uomo (sicuramente con molteplici problemi psicologici) che rispettava un antico codice millenario, investe nel 1970 un Giappone ormai lanciato verso il futuro.
Il 25 novembre 1970 lo scrittore Yukio Mishima, dopo un proclama ripreso dalle tv di tutto il mondo, si asserraglia in un ufficio e commette seppuku, il suicidio rituale degli antichi samurai.
Il suo atto fu definito in modi diversi: dramma meraviglioso e perverso, protesta politica, gesto estremo di un genio folle. Ma quale di queste affermazioni è la più vera? E che fine ha fatto la spada utilizzata da Mishima per uccidersi? Più di trent’anni dopo, Christopher Ross parte alla ricerca di una risposta definitiva a queste domande. Si mette sulle tracce dei testimoni del suicidio, compiendo un viaggio attraverso il Giappone moderno, i suoi tic e le sue ossessioni, viaggio che si rivela col tempo ricco di sorprese. Nel suo procedere erratico, accompagnato dalla voce inconfondibile delle opere di Mishima e dalla severa disciplina interiore del kendo, la via della spada, Ross ricostruisce in modo nuovo un’enigmatica vicenda umana e letteraria. Un libro di viaggio che diventa biografia e racconto filosofico, nonché ritratto di un paese che deve ancora fare i conti con questa morte.
“Yukio Mishima rientra nella stanza 201, dove il generale Mashita è legato a una sedia. E’ seguito da uno studente cadetto della Società dello Scudo, un’associazione para militare da lui stesso fondata, il capitano Masakatsu Morita. Il volto di Mishima è una maschera di risolutezza. Guarda il pavimento e, scuotendo la testa, dice: “Sembra che non mi abbiano sentito bene”. All’esterno il frastuono continua, i soldati gridano: “Konoyaro!” (bastardo!), “Chinpira!” (criminale!) e, forse in modo ancor più offensivo, “Eiyuu kidori shiyagatte!” (sei solo un eroe fasullo!).
Fuori risuonano le sirene della polizia e il rombo degli elicotteri in volo, mentre all’interno della stanza sembra quasi che, per contrasto, regni il silenzio. Chinandosi, Mishima comincia a slacciarsi gli stivali. Aveva già iniziato a sbottonarsi la giacca dell’uniforme appena rientrato nella stanza. “Che cosa vuole fare?” gli chiede il generale Mashita, che ha compreso benissimo le intenzioni di Mishima. Veterano della seconda guerra mondiale, Kanetoshi Mashita aveva già assistito a due atti di suicidio formale per sventramento. “Si fermi! E’ una pazzia!”
Il Piccolo Koga scambia un’occhiata con il suo comandante per capire se deve sostituire il bavaglio al generale. Un cenno rapido, quasi impercettibile, gli indica che non è necessario.
Mishima si toglie la giacca dell’uniforme, la piega con cura, si abbassa i calzoni e si inginocchia velocemente in posizione seiza, il viso rivolto al palazzo imperiale. Sotto l’uniforme indossa soltanto un fundoshi, il perizoma tradizionale giapponese di cui abbassa la parte anteriore, mentre con le dita della mano destra, come un medico che esegua un esame cruciale, tasta l’addome muscoloso in cerca del punto esatto.
Un cadetto tenta di dargli un pennello da scrittura e un riquadro di cartoncino rigido, uno shikishi, su cui Mishima aveva progettato di vergare con il proprio sangue il carattere bu, marziale, ma lui lo allontana con un cenno. L’importante è morire, e in fretta, prima che qualcosa vada storto, prima che qualcuno cerchi di fermarlo. In questo momento i dettagli formali sembrano irrilevanti.
Si toglie l’orologio, come per fermare il tempo, e lo consegna al Vecchio Koga, non un uomo anziano, ma un ragazzo soprannominato così per il modo in cui scrive il proprio cognome. Morita ha preso la lunga spada e comincia a iperventilare. Gli sudano le mani e continua ad asciugarle, prima una e poi l’altra, sui fianchi dei calzoni dell’uniforme, e quindi si passa la spada da una all’altra muovendosi in su e giù in attesa del segnale, alla sinistra di Mishima e leggermente dietro di lui.
Mishima gira la testa e guarda Morita per l’ultima volta. “Kimi wa yamero” gli dice, non farlo, implorandolo di lasciarlo morire da solo. Poi raccoglie lo yoroidoshi, un coltello capace di penetrare un’armatura, se lo punta contro il fianco destro, respira forte tre volte in rapida successione, è un consiglio dell’hagakure per quando si deve affrontare una “difficoltà” poi espira a pieni polmoni prima di afferrare di nuovo l’impugnatura, con un colpo secco, e infilarsi in corpo la lama attraverso la parete di carne e muscoli. Dieci centimetri di metallo gli penetrano nell’addome, ed egli lentamente spinge la lama da sinistra a destra e infine verso l’alto per aprire un lembo di pelle. Il sangue inonda il pavimento. Dalla ferita sbuca un serpente rosa-grigiastro e un odore di latrina invade la stanza.
Mishima fa un cenno con la testa, e Morita assesta un colpo con la spada, calandola più forte che può. La postura sbagliata, combinata con l’impellente bisogno di vomitare, fa sì che la lama manchi l’obiettivo sfiorando le spalle di Mishima e penetrandogli nella schiena invece che nel collo. Mishima si accascia in avanti mentre Morita cala di nuovo la lama, assestando stavolta un innocuo colpo al tappeto imbevuto di sangue. Morita solleva la spada una terza volta mentre i suoi compagni inorriditi gridano: “Mo ikkai!”, (ancora!). Cerca di sferrare un altro colpo disegnando un’ ellisse in un raggio di luce solare, e stavolta centra il collo di Mishima ad un’angolatura sbagliata. La spada si ferma quando incontra l’osso mandibolare, una delle ossa resistenti dello scheletro umano. La punta della lama si scheggia e Morita cerca di estrarla.
Si volta verso il Vecchio Koga che subito gli toglie la spada di mano, la solleva velocemente per prendere la mira e con un unico movimento mozza la testa di Mishima, che si ferma un metro più in là. Il sangue dello scrittore esce pulsando dalle arterie del collo, forma una curva simile allo spruzzo della fontana e schizza oltre il condizionatore fissato al muro.
Ora Morita si inginocchia come Mishima, anch’egli nudo tranne che per un perizoma e con i calzoni dell’uniforme abbassati sotto le cosce. Ha recuperato il coltello e si infila la lama nell’addome. Dalla ferita superficiale trasuda un rivolo di sangue. Il Vecchio Koga, rispondendo a un cenno dell’amico, gli mozza la giovane testa e con un colpo secco della spada di Mishima un’altra vita ha termine”.