In questi giorni rileggo il capolavoro di Boris Pasternàk, Il Dottor Zivago con l’accompagnamento di un grande della musica classica contemporanea, Arvo Pär un compositore estone apprezzato soprattutto per la semplicità dell’ascolto e la trasparenza emotiva delle sue opere che a me per intensità emotiva ricorda il gruppo islandese dei Sigur Rós (gruppo sperimentale che fondeva classica e rock).
Un’ottima combinazione direi, visto entrambi subirono le censure della dittatura bolscevica. Il Dottor Zivago fu pubblicato in Russia solo nel 1988 mentre Arvo Pärt a causa dell’intensa pressione esercitata dalla censura sovietica nei suoi confronti, fuggì a Vienna nel 1980.
L’aspetto più eclatante nell’opera di Pasternàk è che mentre la letteratura occidentale, presa nelle tenaglie di un ferreo discordo, di un’insolvibile contraddizione, ha sempre messo l’accento, da un secolo a questa parte, sull’ineffabilità chimerica della « vita », sull’interminabile rosario delle sue sconfitte e delusioni di fronte alla lettera morta delle cose, secondo la linea che da Flaubert arriva a Cechov e a Joyce passando perfino in visita dal Tolstoi di Anna Karenina, al contrario Pasternàk, fedele ai suoi maestri ottocenteschi, protetto da vaste riserve spaziose, dai suoi boschi e dalle sue fredde notti del nord, riprende il gran tema alle origini, lo affronta di pieno petto, mettendo nel cassetto le nausee e i disgusti esistenziali che passano in secondo piano rispetto alla brutale, palpitante evidenza degli orrori…
Non si tratta di sognare paradisi perduti, o di esercitarsi nella denuncia di cose che scendono da se stesse ben oltre la gelida, depressa riga dello zero morale. Non si tratta di salvare la « poesia », ma la vita, prossima a essere assassinata per sempre. E per uno di quei misteriosi orditi, per una di quelle coincidenze inattese che spesso guidano il destino di una creazione d’arte, Pasternàk torna a parlarci nel momento meno appropriato con la voce più imprevista e più nota, torna a immergere la penna, con un gesto di estrema semplificazione, nel calamaio della felicità e della disperazione, nel buio della loro mobile, emotiva dialettica. Dopo Tolstoi, nessuno ci aveva più detto che anche al centro dell’inferno la gioia, la bellezza di vivere esiste. Che dire un libro immortale.