Libro del cielo e dell’inferno di Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares, Adelphi.
Il lungo sodalizio tra Borges e Bioy Casares, nato ufficialmente nel 1940 con l'”Antologia della letteratura fantastica”, ha dato, com’è noto, frutti molteplici e fosforeggianti: da “Sei problemi per don Isidro Parodi”, alle due raccolte “I migliori racconti polizieschi”, alla prestigiosa collana “El séptimo circulo”, alle “Cronache di Bustos Domecq”.
Meno noto è forse che Borges e Bioy Casares allestirono nel 1960 (ma con una gestazione di vent’anni) una vasta silloge, libera e distratta, delle immagini che gli uomini si sono fatti di quegli universi ulteriori dove ai defunti sono destinati castighi e ricompense: silloge che raduna in particolare, come ha notato Roger Caillois, “le intuizioni dei mistici, dei poeti, dei filosofi, dei narratori, le riflessioni degli spiriti disinvolti”, senza dimenticare “quei ribelli che hanno giudicato assurda, ridicola, odiosa una sanzione così sproporzionata”.
Parlando del poeta persiano Omar Khayyam nella raccolta di saggi del 1952 “Altre Inquisizioni”, Jorge Luis Borges spiega: “E’ ateo, ma sa interpretare in modo ortodosso i più ardui passi del Corano, poiché ogni uomo colto è un teologo, e per esserlo non è indispensabile la fede”. Leonardo Sciascia la interpretò come autodefinizione, quando definì Borges “il più grande teologo del nostro tempo. Un teologo ateo. Vale a dire il segno più alto della contraddizione in cui viviamo”. “In effetti cosa sono i prodigi di Wells o di Edgar Allan Poe – un fiore che ci giunge dal futuro, un morto sottoposto all’ipnosi – in confronto all’invenzione di Dio, alla teoria laboriosa di un essere che in qualche modo è oltre e che perdura solitario fuori dal tempo?”, è pure un’osservazione di Borges, in una recensione del 1943. In cui concludeva: “I cattolici… credono in un mondo ultraterreno, ma ho notato che non se ne interessano. A me accade il contrario: mi interessa e non ci credo”. Ma nella prefazione del 1954 alla “Storia universale dell’infamia” Borges confessava anche il “gioco irresponsabile di un uomo timido che non ebbe il coraggio di scrivere racconti e che si divertì a falsificare (talvolta senza alcuna giustificazione estetica) storie altrui”.
Teologia scettica, gusto per l’apocrifo e erudizione sono appunto alla base di questa famosa antologia delle immagini che gli uomini si sono fatti di tutti quegli universi ulteriori dove ai defunti sono destinati castighi e ricompense, scritta a quattro mani con Bioy Casares. Sono 135 citazioni: 136 con l’esergo di Dante, che in qualche modo permette di includere una “Divina Commedia” altrimenti troppo monumentale per stare nel gioco.
Una delle mie preferite, è sicuramente preghiera di una santa: “Signore, se ti adoro per timore dell’inferno, bruciami all’inferno, e se ti adoro perchè spero nel Paradiso, escludimi dal Paradiso; ma se ti adoro per te stesso, non negarmi la tua bellezza eterna“. ‘Attar, Memorie dei santi (XII secolo).
Vasta silloge («strettamente edonistica e soggettiva» avrebbe detto Borges) delle immagini che gli uomini si sono fatti di quegli universi ulteriori dove ai defunti sono destinati castighi e ricompense, il Libro del cielo e dell’inferno affianca, in un affascinante disordine, frammenti di testi sacri a resoconti di mistici visionari (Platone, l’Apocalisse di San Giovanni, San Agostino, San Tommaso) Ci incanteremo così di fronte al paradiso del Valhalla, dove i guerrieri morti in battaglia ogni mattino si armano, combattono, si danno la morte e rinascono, e all’inferno a sette piani delle Mille e una notte, l’uno sopra l’altro e distanti mille anni fra loro. Ma, soprattutto, si fisseranno per sempre nella nostra memoria i cieli tenacemente terreni immaginati da scrittori come Charles Lamb o Miguel de Unamuno, Victor Hugo, John Milton o ancora Mark Twain, cui si deve questa lapidaria descrizione: «Dov’era lei, era l’Eden». Come auspica il rapido Prologo, del resto, «Chissà che il nostro volume non lasci intravedere la millenaria evoluzione dei concetti di cielo e di inferno: a partire da Swedenborg si pensa a stati dell’anima e non a un luogo di premi e a un altro di pene».