Si può discutere su quale sia la battuta migliore del film, se il cameo di Wolverine o le previsioni di James McAvoy (“presto sarò anche pelato”) ma certo non si può non felicitarsi del ritorno di Bryan Singer, qui in veste di produttore, a un immaginario di cui è stato finora l’interprete più fedele e appassionato. Il film, per la regia di Matthew Vaughn, s’ispira principalmente alle storie di Chris Claremont e alla stagione del “club infernale”, capeggiato da Shaw e dalla regina bianca Emma Frost, ma assomma personaggi che nel fumetto sono appartenuti a età diverse -Bestia, Havok, Banshee, Azazel, Angel, il recentissimo Darwin- scommettendo su un cast tanto insolito quanto piuttosto efficace. L’ambientazione anni Sessanta, oltre a favorire l’inserimento di January Jones (Mad Men), rende conto di un gusto rétro diffuso tra i blockbuster dell’ultima ora, ma è in fondo anche una testimonianza di sintonia con una serie che da sempre si “riavvia” da sé, piantando le radici nel terreno più fertile. Infine, è un espediente che funziona per sottrarre i personaggi da una dimensione fantascientifica (con tecnologie d’avanguardia che allontanano i loro scontri oltre l’ennesima potenza dell’inverosimile) e riportarli, pur sempre nell’alveo del fantastico, dentro un contesto noto, schematico come una battaglia navale e apocalittico come una guerra nucleare. La crisi dei missili di Cuba, soglia potenziale di un reale armageddon, per usare un termine in tema, fa buon gioco per sistemare i “buoni” da una parte, i “cattivi” dall’altra e i mutanti nel mezzo e ricordarci che è tutta lì che si gioca la bellezza degli X-men, nello spazio di libertà che li caratterizza e li imprigiona, nel loro avere dei super poteri (che senso di libertà, che divertimento, che ritorno all’infanzia!) e nell’essere però costretti a scegliere come impiegarli, per difendersi o per attaccare, per socializzare o ghettizzarsi (tutti crescono, anche i mutanti, anche se c’è chi invecchia più lentamente). Mettendo in scena quei ragazzini che giocano a far sfoggio di bizzarre abilità in una stanzetta, dietro una tenda da teatro o meglio una vetrina da negozio di animali, il film recupera dunque anche l’idea originaria di una mutazione legata anche all’adolescenza, periodo della vita in cui il fisico appare come un nemico, l’inserimento in società come un’opzione non sempre gradita, l’identità una variabile costante e la ribellione un richiamo. Ma su questa delicata accezione di mutazione se ne disegna da subito una ben più tragica, dove la X smette di essere il simbolo buono per la tutina da supereroe e diventa un marchio, un tatuaggio indelebile. Speciali e dunque discriminati, i mutanti sono un popolo condannato alla persecuzione, vittima di un razzismo che acceca, per vendetta e al contrario, anche i più sensibili tra loro: come X-men 2 era stato il film di Wolverine (di gran lunga più e meglio dello spin-off) non c’è dubbio che questo sia il film di Magneto, l’Anakin della saga, attraversato da una ferita senza cura possibile e destinato a procurarne di terribili a sua volta. Fassbender gli presta uno sguardo intelligente e fermo, privo di smorfie da bel tenebroso ma non certo privo di fascino né di sentimento. A questo punto uno dei migliori film Marvel mai realizzati.
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