Il cinema secondo Hitchcock, di Francois Truffaut, il Saggiatore.
In questi giorni sono immerso nella lettura dell’ormai leggendario libro che riporta la lunghissima intervista che nel 1962 Francois Truffaut fece ad Alfred Hitchcock.
Uno degli uomini di punta della Nouvelle Vague, il giovane Francois Truffaut, che nel 1962, a soli 30 anni, ha già alle sue spalle film come “I quattrocento colpi” e “Jules e Jim” sbarca a New York per la presentazione del suo ultimo film e si sente rivolgere da tutti i giornalisti la stessa domanda:“Perchè i critici dei Cahiers di Cinema prendono sul serio Hitchcock? E’ ricco ha successo, ma i suoi film non hanno sostanza.”
Il giovane regista francese passa un’ora con uno di questi critici cercando di convincerlo della grandezza di un film come “La finestra sul cortile”. Ne ottiene una risposta che lo sorprende per la sua enormità: ” Le piace La Finestra sul cortile perchè, non essendo di casa a New York, non conosce il Greenwich Village”.
Truffaut fulmina il suo interlocutore rispondendo seccamente : “La finestra sul cortile non è un film sul Village; è semplicemente un film sul cinema ed io conosco il cinema”.
Il regista francese torna a casa, rimuginando sulla incredibile ingiustizia di cui è vittima il venerato maestro, gli viene in mente l’idea del libro intervista, Hitchcock grazie a questa opera è “sdoganato” dalla critica cinematografica che finalmente riconosce il valore di opere immortali come La donna che visse due volte, Caccia al ladro, Vertigo, Intrigo internazionale, Psyco, Marnie.
Il libro è una vera miniera di racconti e aneddoti, definito a ragione”il più divertente libro di cinema che sia mai stato scritto”, questo lunghissimo dialogo tra i due grandi registi si svolge in un’appassionante interrogazione sull’arte cinematografica, sul suo linguaggio, la sua strategia, le leggi che presiedono al montaggio, al taglio delle inquadrature, al succedersi delle sequenze, alla tecnica narrativa. Un discorso in apparenza semplice, interamente affidato alla consapevolezza artigianale del “fare”, tra le cui righe si staglia la precisa coscienza, in entrambi, di possedere strumenti speciali, di potere collocare il proprio lavoro al di fuori dell'”impero del verosimile”, in territori governati da altre leggi, dove intere generazioni di spettatori e cineasti li hanno seguiti imparando ad amare il cinema.