Sono riuscito finalmente a vedere il film che apettavo da tempo; District 9 fonde un finto documentario, riprese con camera a mano e frenetici cambi di ritmo come si trattasse di un combat film, allinea sequenze che mischiano senza una logica extra-filmica inquadrature tradizionali con punti di vista di videocamere a circuito chiuso o amatoriali fino a giungere ad uno stile che non si cura di dare una gerarchia tra le forme di produzione audiovisuali.
Le videocamere amatoriali come quelle professionali, i telefonini come le videocamere di sicurezza, tutto già contribuisce al racconto della realtà moderna che il cinema se ne accorga o meno. In District 9 questo modo di vedere e far vedere le cose diventa stile e al tempo stesso accettazione del fatto che la macchina da presa classica non è più al centro del linguaggio audiovisuale.
A dimostrazione di quanto l’idea di parlare di un’umanità disumana di fronte agli alieni fosse un’esigenza di Neill Blomkamp c’è Alive in Joburg, cortometraggio realizzato dal regista nel 2005 che visto oggi sembra una prova generale per District 9.
Negli anni ’80 sono arrivati gli alieni. Stavolta però non sono atterrati a Manhattan o in qualche sperduto paesino campagnolo degli Stati Uniti ma si sono fermati con un’astronave gigante sopra Johannesburg senza muoversi più. C’è stato bisogno che un convoglio terrestre andasse a vedere cosa conteneva quella nave apparentemente immobile perscoprire milioni di alieni denutriti, sporchi e in condizioni pessime. Da quel momento per 20 anni i visitatori sono stati stipati in una baraccopoli di Johannesburg creata per l’occasione: il distretto 9. Un luogo dove le creature da un altro pianeta sono trattate come animali, dove regnano caos e anarchia e dal quale ogni tanto scappano facendo incursioni in città che non portano altro che risentimento e xenofobia nella popolazione locale. Ora è arrivato il momento di spostarli da qualche altra parte, ma loro è a casa che vogliono tornare.
District 9 si presenta con una metafora lineare: gli alieni come gli immigrati, le creature da un altro pianeta a Johannesburg sono come le creature da un altro paese nel resto del mondo. E per fare questo non esita a dare vita a personaggio digitali che siano il più rivoltante possibile che generino anche nello spettatore immediata repulsione. Ma questa metafora è solo un primo inganno poichè, a furia di spingerla in avanti e di arrivare alla estreme conseguenze in un film che è un documentario di fantascienza, l’esordiente Blomkamp rende chiaro ad un certo punto come, nell’ottica allegorica, noi (spettatori) non siamo gli umani del film ma gli alieni. L’immedesimazione è tutta con le creature immigrate, i ruoli positivi esistono solo tra quei personaggi mentre gli uomini sono in tutto e per tutto “il nemico”. Ecco perchè le creature orrende e rivoltanti solo ad un certo punto rivelano degli occhi grandi, umani e colmi di tristezza.
“Presumibilmente, nella astronave l’elite di questa colonia è stata uccisa da un batterio, o qualcosa di simile. Quindi quello che rimane degli alieni sono una specie di colonia di droni, privi di volontà precise o progettualità, come termiti. Quando arrivai a questo concetto, rifacemmo tutto d’accapo.
Inizialmente mi sembravano dei grilli. Quando finimmo l’esoscheletro, però, ci basammo su diversi insetti. In alcune versioni gli alieni erano più simili a vespe o api, mentre altri sembravano scarabei. Non c’è nulla di totalmente accurato dal punto di vista biologico: sono diversi dettagli uniti insieme, per dare l’impressione di una creatura insettiforme” Neil Blomkamp